Le previsioni APT 2023 e le nuove minacce alla cybersecurity

Le tensioni politiche del 2022 hanno determinato un cambiamento che si rifletterà sulla cybersecurity dei prossimi anni e avrà un effetto diretto sullo sviluppo di futuri attacchi sofisticati.
I ricercatori di Kaspersky hanno presentato le previsioni sul futuro delle Advanced Persistent Threat (APT), definendo i cambiamenti nel panorama delle minacce che emergeranno nel 2023. Che riguarderebbero, in particolare, gli attacchi a tecnologie satellitari e server di posta elettronica, l’aumento degli attacchi distruttivi e delle violazioni, l’hacking dei droni, e una prossima grande epidemia informatica, simile a quella di WannaCry.

Un nuovo WannaCry?

Statisticamente, alcune delle epidemie informatiche più grandi e impattanti si verificano ogni sei/sette anni. L’ultimo incidente di questo tipo è stato appunto il ransomware-worm WannaCry, e i motivi per cui un fenomeno simile potrebbe ripetersi sono che gli attori delle minacce più sofisticate probabilmente sono in possesso di almeno un exploit adatto, e le attuali tensioni globali aumentano notevolmente la possibilità che si verifichi. I cambiamenti più importanti si rifletteranno anche sui nuovi obiettivi e scenari di attacco: il prossimo anno si potranno individuare attaccanti e specialisti abili nel combinare intrusioni fisiche e informatiche, impiegando droni lanciati con dispositivi fisicamente vicini al target.

I server di posta elettronica diventano obiettivi prioritari

Considerato l’attuale clima politico si prevede un numero record di attacchi informatici che colpiranno le PA e i principali settori di mercato. È probabile che una parte non sia facilmente riconducibile a incidenti informatici, ma appaia come un incidente casuale. Altri attacchi assumeranno la forma di pseudo-ransomware o operazioni hacktivist per fornire una copertura plausibile ai veri autori. Anche gli attacchi informatici di alto profilo contro le infrastrutture a uso civile, come reti energetiche o radiodiffusione pubblica, potrebbero diventare obiettivi, così come i collegamenti sottomarini e i nodi di distribuzione della fibra, difficili da difendere.

La nuova moda hack-and-leak

I server di posta elettronica contengono informazioni chiave, quindi sono elementi interessanti per gli attori APT e hanno la più grande superficie di attacco immaginabile. I leader di mercato hanno già affrontato lo sfruttamento di vulnerabilità critiche e il 2023 sarà l’anno degli zero-day per tutti i principali programmi di e-mail. Con le attuali funzionalità e la prova che le APT sono in grado di attaccare i satelliti, poi, è probabile che in futuro i cybercriminali rivolgeranno sempre più l’attenzione alla manipolazione e all’interferenza con le tecnologie satellitari.
Inoltre, la nuova modalità di attacco ibrido sviluppata nel 2022 ha comportato numerose operazioni hack-and-leak. Queste persisteranno anche nel prossimo anno, con gli operatori APT che faranno trapelare dati su gruppi di minaccia concorrenti e diffonderanno informazioni.

La Twitter di Elon Musk verso i video a pagamento?

Secondo quanto emerge da un’email interna ottenuta dal Washington Post, Twitter starebbe lavorando a una funzionalità che consentirebbe di pubblicare video e addebitare agli utenti la visualizzazione. La società, secondo il Washington Post, punterebbe a rendere questa funzionalità denominata Paywalled video operativa “tra una o due settimane”. Da quando Elon Musk ha recentemente acquistato Twitter per 44 miliardi di dollari, sta cercando di rendere il social network più redditizio. L’accesso ai video per gli utenti avrebbe prezzi variabili, da 1 a 2 fino a 5 o 10 dollari. In pratica, chi twitta il video riceverebbe una parte della somma, mentre il social network prenderebbe una percentuale che però non è stata ancora specificata.

“Solo tre giorni per fornire un feedback sui potenziali rischi”

Gli utenti che non hanno pagato però non sarebbero in grado di vedere il video, anche se potrebbero mettere mi piace, o ritwittare il tweet. Ma il team al lavoro su questa nuova funzionalità avrebbe indicato, in particolare, rischi legati ai contenuti protetti da copyright.
“Non è chiaro – spiega il quotidiano Usa – se la funzione fosse in fase di sviluppo prima che Musk prendesse la guida della società”. E Twitter, su questo punto, non ha rilasciato commenti.
Comunque, il team incaricato di studiare le implicazioni di questa nuova funzionalità avrebbe “solo tre giorni per fornire un feedback sui potenziali rischi”. E un dipendente di Twitter, rileva ancora il Washington Post, ha affermato che la nuova funzionalità probabilmente potrebbe essere utilizzata almeno in parte per i contenuti per adulti.

Addebitare i costi agli utenti

Al momento, riferisce Adnkronos,mentre Twitter registra la maggior parte dei propri ricavi grazie agli introiti dovuti alla pubblicità, Elon Musk sembra deciso a voler addebitare un costo anche agli utenti.
Questo è emerso recentemente anche con l’annuncio di voler mettere a pagamento la cosiddetta ‘spunta blu’, il sistema usato finora da Twitter per verificare l’identità delle persone pubbliche.
In questo caso, Elon Musk in un tweet ha parlato di “un abbonamento da 8 dollari al mese”.

Abbonarsi a Twitter Blue per mantenere la ‘spunta blu’

Il punto più discusso del nuovo corso di Twitter è proprio il vincolo ad abbonarsi a Twitter Blue per ottenere o mantenere la spunta blu. Coloro che in questo momento la possiedono, se sceglieranno di non abbonarsi al rinnovato piano a pagamento la perderanno. E chi vorrà, personaggio famoso o meno, di fatto potrà acquistarla. Sono tanti gli utenti attualmente verificati che hanno mostrato il loro disaccordo, con toni tutt’altro che pacati, come ad esempio lo scrittore Stephen King e l’attore Evan Handler. Proprio King, riferisce Wired, ha annunciato l’addio a Twitter a fronte dei 20 dollari inizialmente previsti, tanto da spingere il fondatore di Tesla a rilanciare a 8 dollari, poi definita la tariffa definitiva.

Investimenti-truffa online: come si riconoscono?

In una fase storica in cui nessun investimento tradizionale rende bene, gli investimenti truffa si diffondono correndo online, sostenuti da un passaparola che promette ottimi rendimenti, e innesca bonifici facili su conti non verificabili. Qualcuno, a monte, ha anche ottenuto effettivamente un guadagno, ma è la catena degli investimenti successivi che porta, a valle, a perdite consistenti. La Consob recentemente è intervenuta per oscurare sei nuovi siti web che offrono abusivamente servizi finanziari o prodotti finanziari: cinque siti di intermediazione finanziaria abusiva, e un sito mediante il quale viene svolta un’offerta di prodotti finanziari in mancanza di prospetto informativo. Si tratta di Uefa Football Fund Ltd.

Il caso Uefa Football Fund Ltd

Ovviamente salta subito all’occhio l’utilizzo del nome della Uefa per dare credibilità e copertura istituzionale all’operazione. In realtà, si tratta di una truffa, non solo potenziale, visto che sono diverse le persone che hanno già perso il loro denaro. Per ora è scattata la sospensione 90 giorni. L’Autorità contesta sia le informazioni fornite, sia la mancanza di un prospetto informativo. Di fatto, i piani di investimento denominati UEFA Football Hedge Fund garantirebbero al sottoscrittore, a fronte dell’impiego di capitale, l’ottenimento di un ‘un reddito stabile’.

Un processo di investimento sicuro, affidabile e garantito falso

Tecnicamente, si pubblicizza l’analisi dei big data per investire nel mondo del calcio e corrispondere agli investitori un rendimento calcolato sulla base di un ‘interesse composto Formula a lungo termine: (capitale + reddito) + (reddito + reddito) = piano di investimento a tasso composto’. Un filmato poi presenta l’iniziativa descrivendo un ‘prodotto finanziario’ che sarebbe caratterizzato da ‘un basso rischio e un profitto a lungo termine’ attraverso ‘un processo di investimento sicuro, affidabile e garantito’. Gli strumenti sembrano innovativi, dai big data alle criptovalute spesso utilizzate come esca, ma lo schema è quello classico delle truffe finanziarie. Viene utilizzato lo schema piramidale detto anche schema Ponzi, dal nome del suo ideatore, operante negli Stati Uniti agli inizi del ‘900.

Lo schema Ponzi

È uno schema che non sembra preoccuparsi dei segni del tempo, essendo stato utilizzato anche in anni recenti da Bernard Madoff per una delle truffe più eclatanti di tutti i tempi.
Come funziona? Chi entra per primo ottiene ritorni economici a spese dei successivi investitori Si tratta, in parole diverse, di una specie di catena di Sant’Antonio nella quale vengono promessi interessi molto elevati, pagati agli ‘investitori’ mediante il denaro apportato dai nuovi soggetti che hanno aderito successivamente allo schema. Il gioco funziona fino a quando resta elevata la capacità di attrarre nuovi partecipanti, riporta Adnkronos. Quando, invece, il nuovo denaro in entrata non riesce più a coprire gli interessi promessi a chi è già stato coinvolto nello schema, il circuito si blocca, manifestando la sua natura di truffa.

Come sorridono gli italiani nel post-Covid? A  “bocca chiusa”

Se è proprio il viso, e in particolare la bocca, a esprimere lo stato d’animo, è il sorriso il vero specchio dell’anima. Lo pensa, rispettivamente il 34% e il 38% degli italiani. È quanto emerge dallo studio Italiani e sorriso, commissionato da Straumann Group, che evidenzia il ruolo chiave della bocca per gli italiani: secondo il 37% degli intervistati, la bocca rappresenta una delle parti più intime del corpo, per il 29% è uno strumento indispensabile per comunicare, e per il 21% è una parte del viso da curare all’esterno e all’interno. Innumerevoli, inoltre, le sue funzioni, parlare (30%), mangiare (25%), baciare (20%), trasmettere uno stato d’animo (19%). Sono molteplici anche gli stati d’animo che le persone manifestano attraverso la bocca: felicità (67%), sorpresa/stupore (59%), perplessità (56%), disaccordo (41%) e tristezza (45%). 

Lo stato d’animo si esprime con la bocca

La bocca, quindi, è la traduttrice simultanea più versatile dei nostri stati d’animo e nel ventaglio delle sue possibilità espressive il sorriso occupa il primo posto. Ma l’indagine rivela che il 61% degli italiani sorride a bocca chiusa, mentre soltanto il 39% lo fa a bocca aperta.
“Il sorriso a bocca chiusa si carica di significati – commenta Katia Vignoli, docente alla Scuola di specializzazione in psicoterapia e alla Scuola di Naturopatia dell’Istituto Riza -: tenere la bocca chiusa è sbarrare l’accesso al mondo, e mima un grande ‘No’ alla vita. Aprire la bocca, invece, non è solo respirare, mangiare, parlare – aggiunge Vignoli -, è un grande ‘Sì’ alla vita: significa permettere alla vita di entrare dentro di noi, consentire a noi stessi di uscire arricchiti o trasformati da questo scambio”.

I denti e il sorriso

Quali sono le ragioni per cui gli italiani, quando sorridono, non mostrano i denti? Insicurezza legata all’aspetto fisico (67%), disabitudine legata all’uso della mascherina (63%), timidezza (60%) e poca cura della cavità orale (56%). Quest’ultimo è un aspetto che potrebbe essere migliorato e che secondo l’indagine, induce emozioni negative nelle persone consapevoli di non avere un sorriso curato, quali insicurezza (59%), imbarazzo (43%), vergogna (39%) e malumore (33%). Di contro, una bocca curata fa sentire più belli (67%), più sicuri con gli interlocutori (55%) e in salute (51%), oltre a migliorare l’autostima (47%).

Colpa della mascherina

Per il 31% delle persone, la mancata cura della propria bocca è strettamente correlata al periodo pandemico e all’uso della mascherina. Il 27% attribuisce invece le ragioni al costo delle visite dentistiche oppure a problemi economici, il 20% a una minor frequenza con cui ci si rapporta alle persone, mentre il 15% a un’attenzione bassa per l’igiene. L’indagine rivela però che il ‘trend negativo’ è a un punto di svolta: il 61% degli italiani si prenderà maggiore cura della propria bocca, per via della diminuzione delle misure restrittive, l’uso meno frequente delle mascherine e l’aumento degli incontri in presenza, con un conseguente probabile incremento dei sorrisi.

Quando serve una linea vita?

Una linea vita è un dispositivo di protezione anticaduta conforme previsto dalla normativa UNI EN 795:2012 sui sistemi di ancoraggio.

Tale norma infatti va a specificare quelli che sono i requisiti che devono essere propri dei dispositivi di ancoraggio, ed in particolar modo quel che riguarda le loro prestazioni e caratteristiche tecniche.

La normativa prevede che tali sistemi di norma debbano essere adoperati soltanto da una persona alla volta e che possano comunque sempre poter essere rimossi dalla struttura nella quale vengono installata.

Mediante tale sistema è possibile tutelare l’incolumità degli operai che lavorano sul tetto o comunque in quota, dato che esso è in grado di impedire le cadute dall’alto e le conseguenze che solitamente queste hanno.

Quando vanno installate le linee vita?

È importante precisare che la normativa intende come lavoro ad alta quota qualsiasi tipo di lavoro che venga effettuato ad una altezza pari o superiore a 2 metri.

È molto importante sottolineare il fatto che tale dispositivo di sicurezza non sia previsto esclusivamente per i cantieri e dunque gli operai che svolgono le proprie prestazioni professionali all’interno degli stessi, ma anche per qualsiasi altro tipo di lavoro che viene svolto in quota anche al di fuori del cantiere.

Pensiamo ad esempio all’installazione dei pannelli fotovoltaici sulla copertura, il rifacimento del tetto stesso o qualsiasi altro tipo di lavoro che riguardi la manutenzione o il controllo ad una quota che vada dai 2 metri in poi.

Che risultati è possibile ottenere grazie alle linee vita?

Grazie alle linee vita, dunque un sistema di agganci disposti sul colmo dei tetti che consentono agli operai di potersi spostare sull’intera superficie del tetto in sicurezza, è possibile offrire un valido sistema anticaduta che impedirà alla persona in questione di precipitare al suolo in caso di perdita di equilibrio.

La persona interessata deve infatti essere dotata di un apposito sistema di imbracatura e che venga assicurato alle linee vita, così da andare a frenare e bloccare qualsiasi tipo di caduta verso il basso.

Grazie a degli appositi dispositivi che fungono da frizione, è possibile fare in modo che l’arresto della caduta sia ancora più dolce e meno invasivo per l’operaio.

Ulteriori vantaggi delle linee vita

Oltre il vantaggio principale già elencato, ovvero quello di andare a salvaguardare l’incolumità della persona o delle persone che hanno necessità di salire sul tetto per qualsiasi tipo di intervento, vi sono ulteriori motivi per i quali una linea vita tetto può rappresentare una ottima soluzione. Ecco di seguito i più importanti.

  • La non necessità di installare delle impalcature: grazie alle linee vita tetto si rende del tutto inutile l’installazione di impalcatura nel caso di lavori sul tetto. Bastano le linee vita infatti a garantire tutta la sicurezza necessaria agli operai, i quali a questo punto non hanno più bisogno di altro tipo di supporti. Ciò è un vantaggio di non poco conto in quanto, come è noto, l’installazione di ponteggi è decisamente onerosa e può incidere notevolmente su un preventivo di spesa che riguardi lavori di qualsiasi tipo sul tetto.
  • Maggiore libertà di movimento: grazie alle linee vita gli operai possono muoversi con particolare disinvoltura sul tetto, senza alcun timore per la propria incolumità e con la certezza di usufruire di un sistema in grado di interrompere tempestivamente una caduta qualora dovesse verificarsi.

Ecco dunque spiegati i motivi per i quali installare una linea vita è indispensabile. Anche in virtù dei vantaggi che tale sistema anticaduta offre, possiamo certamente affermare che essa dovrebbe essere la priorità per chiunque gestisca un cantiere o necessiti di effettuare lavori di manutenzione sul tetto.

Sai quanto inquinano smartphone e computer aziendali?

Leggiamo e sentiamo parlare sempre più spesso di inquinamento dovuto alle emissioni tecnologiche. Ma quanto inquinano nella realtà quelle aziendali? A questa domanda ha risposto il report “The green IT revolution: A blueprint for CIOs to combat climate change”, a cura di McKinsey & Company, che dichiara subito che “le emissioni generate dalla componente tecnologica delle aziende sono molto più consistenti di quanto comunemente si creda”.

L’1% delle emissioni globali di gas serra

L’analisi evidenzia che la tecnologia aziendale è responsabile dell’emissione di circa 350-400 megatoni di gas equivalenti di anidride carbonica (CO 2 e), che rappresentano circa l’1% delle emissioni globali di gas serra (GHG). A prima vista, questo potrebbe non sembrare molto, ma equivale a circa la metà delle emissioni dell’aviazione o della navigazione ed è l’equivalente del carbonio totale emesso dal Regno Unito. Il settore industriale che contribuisce con la quota maggiore delle emissioni di gas serra di ambito 2 e 3 relative alla tecnologia è quello delle comunicazioni, dei media e dei servizi. Il contributo della tecnologia aziendale alle emissioni totali è particolarmente elevato per le assicurazioni (45% del totale delle emissioni ) e per i servizi bancari e di investimento (36%).

I grandi colpevoli sono i device aziendali, non i data center

I dispositivi degli utenti (laptop, tablet, smartphone e stampanti) generano da 1,5 a 2,0 volte più carbonio a livello globale rispetto ai data center. Uno dei motivi è che le aziende dispongono di un numero significativamente maggiore di dispositivi per gli utenti finali rispetto ai server nei data center locali. Inoltre, i dispositivi in genere vengono sostituiti molto più spesso: gli smartphone hanno un ciclo di aggiornamento medio di due anni, i laptop quattro anni e le stampanti cinque anni. Mediamente, i server vengono sostituiti ogni cinque anni, anche se il 19% delle organizzazioni dilata i tempi più a lungo. Ancora più preoccupante, le emissioni dei dispositivi degli utenti sono sulla strada per aumentare a un CAGR del 12,8% all’anno. Gli sforzi per affrontare questo problema potrebbero mirare alle principali cause di emissioni di questi dispositivi. Circa tre quarti delle emissioni provengono dalla produzione, dal trasporto a monte e dallo smaltimento. Una fonte significativa di queste emissioni sono i semiconduttori che alimentano i dispositivi.

Selezionare i modelli più ecologici 

Con queste cifre, appare evidente che non si può aspettare e che invece bisogna correre ai ripari. Il report sottolinea, infatti, quante e quali azioni concrete possono adottare i chief information officer per ridurre emissioni e tagliare i costi energetici. Oltre ottimizzare l’utilizzo dei dispositivi, è possibile scegliere quelli più ecologici, allungare il loro ciclo di vita (anche attraverso riparazione e riuso), impegnarsi di più nel riciclo (l’89% delle organizzazioni ricicla meno del 10% del proprio hardware). Basterebbero queste mosse per dimezzare le emissioni.

L’identikit delle aziende italiane di e-commerce

La pandemia ha fatto compiere all’Italia un salto evolutivo di 10 anni verso il digitale, in particolare sul fronte dell’e-commerce. Nel 2022 gli acquisti online sono stimati in crescita del +14% (45,9 miliardi di euro), rispetto ai 27 miliardi del 2018. Oggi le oltre 70 mila le aziende che vendono online sono costituite principalmente da società di capitali (53,6%), contro un 29,5% di imprese individuali e un 15,2% di società di persone. Si tratta prevalentemente di aziende di piccole dimensioni, con un fatturato che quasi nel 90% dei casi risulta inferiore ai 5 milioni di euro. Nell’80% circa dei casi hanno meno di 10 dipendenti (meno di 5 nel 64% del totale). Sono alcuni dati elaborati dalla piattaforma di marketing intelligence di CRIF, che ha delineato l’identikit delle aziende di e-commerce italiane.

Settori e distribuzione geografica

In questi ultimi anni difficili, queste aziende hanno sofferto meno la crisi: il 31% di società di capitali ha registrato addirittura un fatturato in crescita nell’ultimo biennio, e nel 30% dei casi si tratta di realtà in crescita anche come numero di dipendenti. Il settore di appartenenza prevalente è quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio (51,7% del totale), seguito da attività manifatturiere (17,5%), agricoltura (5%), servizi di informazione e comunicazione (4,6%), e attività dei servizi di alloggio e ristorazione (3,5%).
La localizzazione geografica vede al primo posto la Lombardia (18% del totale), seguita da Lazio (9,9%), Campania (9,5%), Veneto (8,8%) ed Emilia Romagna (8,4%).

Rischiosità commerciale, digital attitude e innovazione 

Da sottolineare anche come le aziende di e-commerce italiane risultino anche più virtuose dal punto di vista della rischiosità commerciale, con una quota di aziende caratterizzate da un livello di rischio molto basso, quasi il doppio rispetto alla media italiana (16,7% del totale vs 9%). Analizzandole sulla base di due score proprietari di CRIF, che misurano la digital attitude e il livello di innovazione, emerge che rispettivamente nel 74% e nel 72,3% dei casi mostrano un grado elevato di digitalizzazione e innovazione.
“Segnali positivi che danno fiducia anche per quanto riguarda la capacità di queste imprese di fronteggiare una situazione economica e geopolitica ancora difficile e incerta”, commenta Simone Capecchi, Executive Director CRIF.

Le Pmi digitali e il PNRR

“Nel contesto del PNRR – continua Capecchi -, lo sviluppo del commercio elettronico delle Pmi in Paesi esteri costituisce uno dei titoli degli strumenti finanziari previsti dal Piano, con contributi a fondo perduto fino al 40% per lo sviluppo piattaforme di e-commerce e di web marketing. E i player finanziari possono giocare un ruolo fondamentale nel supporto alle imprese in questo percorso di sviluppo digitale. Per farlo, è fondamentale una conoscenza approfondita delle imprese stesse, messa a disposizione agevolmente da piattaforme che valorizzino l’intero ecosistema di dati e analytics”. 

Clima e caro bollette: per i consumatori c’è un collegamento

Lo ha rilevato uno studio di Schneider Electric: quasi 9 consumatori su 10 a livello mondiale, l’86%, pensano che il cambiamento climatico porterà all’aumento della bolletta energetica, e per 7 su 10 (72%) è una priorità personale ridurre l’impronta di carbonio. Il 55% è infatti convinto che sia responsabilità degli individui combattere il cambiamento climatico. Secondo lo studio, inoltre, più della metà degli intervistati (55%) ritiene importante che gli edifici in cui vivono diventino ‘net zero’, anche se meno di un terzo (31%) pensa che questo possa veramente accadere. 

Migliorare la gestione dell’energia a livello residenziale

“L’aumento dei prezzi dell’energia e un costo della vita più alto che mai, unito al numero crescente di veicoli elettrici su strada e di device alimentati con energia elettrica, rende la gestione dell’energia a livello residenziale una delle aree di maggiore importanza per i consumatori, per i costruttori, per le aziende e per i governi di tutto il mondo – commenta Jaap Ham, Associate Professor in the Industrial Engineering & Innovation Sciences all’Università della Tecnologia di Eindhoven -. I dati della ricerca mostrano che molti vogliono cambiare, ma sono pessimisti su quanto le loro scelte possano fare la differenza, mentre, in realtà, il futuro è davvero nelle nostre mani se rendiamo i luoghi dove viviamo più sostenibili con l’aiuto delle moderne tecnologie di gestione dell’energia”.

“L’ostacolo più grande al cambiamento sono i nostri schemi mentali”

“L’ostacolo più grande al cambiamento, oggi, sono i nostri schemi mentali – prosegue Ham -. Abbiamo come un blocco psicologico, che ci porta a sottrarci alla responsabilità di agire. La ricerca mostra che se adottiamo soluzioni intelligenti e digitali per combattere il ‘nemico invisibile’ negli sprechi del consumo e nella gestione dell’energia, se sostituiamo i combustibili fossili con elettricità da fonti pulite e intelligente cambiando ‘la dieta energetica’ degli edifici, possiamo vedere in concreto il contributo significativo che diamo alla lotta al cambiamento climatico. Inoltre, dovremmo poter fare il bene dell’ambiente senza compromessi sul benessere”.

Investire in soluzioni per le abitazioni smart e sostenibili 

Costo della vita e la possibilità di gestire costi e consumi dell’energia sono i motivi principali che spingono i consumatori a investire in soluzioni smart e sostenibili. Il 40% degli intervistati infatti crede che le tecnologie per gli edifici smart possano aiutare a rendere più sostenibili le loro case. E oltre la metà (54%) si aspetta che i nuovi edifici residenziali siano equipaggiati con tecnologie smart home, +13% rispetto al 2020
Individui e famiglie sono disposti a spendere in media 1.995 euro nei prossimi 12 mesi per aumentare l’efficienza energetica, e chi ha già adottato tecnologie smart è disposto a spendere 2.613 euro, mentre chi non ne ha mai usate,1.079 euro. Le tecnologie più acquistate? Quelle per l’illuminazione e la regolazione della temperatura.

Caro carburanti: le preoccupazioni degli automobilisti italiani

L’86% degli automobilisti è molto o abbastanza preoccupato per l’aumento dei prezzi dei carburanti, soprattutto per l’incidenza sul bilancio familiare, e oltre la metà ritiene l’ultimo provvedimento del Governo insufficiente. Il 73% degli italiani usa infatti l’auto più di 5 giorni a settimana, il 69% percorre più di 10mila chilometri all’anno, quasi sei su dieci spendono in media tra i 100 e i 300 euro al mese di carburante, e il 15% supera i 300 euro. Il Centro Studi di AutoScout24 ha indagato il sentiment degli automobilisti e l’impatto dell’aumento dei prezzi sulle abitudini di utilizzo dell’auto. E il primo aspetto che emerge è la conferma del ruolo centrale dell’auto, utilizzata dal 93% degli italiani per i propri spostamenti dovuti a esigenze familiari (65%) o per il tragitto casa-lavoro.

L’impatto sulle abitudini degli italiani al volante…

Al momento questa situazione ha avuto un impatto sulle abitudini di utilizzo dell’auto solo sul 37% del campione, ma in futuro potrebbe aumentare (63%) se non verranno presi provvedimenti e i costi dovessero salire ulteriormente. Per ora il 38% cerca di ridurre l’uso di auto benzina/diesel per il tempo libero, ma il vero cambiamento riguarda l’adozione di comportamenti virtuosi, come un diverso approccio alla guida e maggiore attenzione al risparmio. Circa un terzo, infatti, sceglie il distributore in base al prezzo più economico e il 27% tende a fare rifornimento esclusivamente al self service. Il 29% guida in modo ‘soft’ per ridurre i consumi, e un quinto monitora attentamente le spese mensili. Il 16% ha poi iniziato a usare app dedicate o il web per individuare le stazioni più economiche.

…e quello sulle scelte di acquisto di un’auto

Solo il 16% ha deciso di non acquistare più un’auto a causa del caro carburanti, mentre tra chi ha confermato l’intenzione all’acquisto l’aumento dei prezzi non ha influito nella scelta del tipo di alimentazione (74%). Quasi due su dieci si stanno spostando da vetture ‘tradizionali’ verso vetture che consumino meno, e il 9% da vetture tradizionali a ibride/elettriche. Le elettriche ‘pure’ rappresentano una quota minima: gli italiani dichiarano di non voler acquistarle principalmente a causa della scarsa autonomia delle batterie (39%) e per il costo elevato (24%).

Viaggi: rinunciare o no alle vacanze?

Sui viaggi il caro carburanti ha avuto sicuramente un impatto: il 22% dei rispondenti aveva intenzione di andare in vacanza, ma ha cambiato idea proprio per l’aumento del costo della benzina. Eppure, nella scelta del mezzo per i viaggi gli italiani non hanno dubbi. L’auto è il mezzo preferito (88%), per la possibilità di partire quando si vuole (83%), e per la libertà e la flessibilità che consente (33%).
Ma escludendo i fedelissimi (30%), che non rinuncerebbero mai alla comodità dell’auto, oltre la metà del campione in caso di aumenti userà l’auto solo se non avrà alternative, e il 18% valuterà attentamente mezzi alternativi scegliendo il più economico.

Imprese estere in Italia: 19,3% fatturato industria e servizi, e +23,6% occupati

Le imprese a controllo estero in Italia generano da sole il 19,3% del fatturato nazionale del settore industria e servizi, pari a 624 miliardi di euro. E nel decennio 2009-19 il numero degli occupati delle multinazionali estere è cresciuto del 23,6% (+289mila addetti), raggiungendo 1,5 milioni di dipendenti, l’8,7% del totale degli occupati delle imprese a livello nazionale. Le multinazionali estere in Italia sono 15.779, ma se corrispondono solo allo 0,4% del totale delle imprese residenti, rappresentano un driver fondamentale di crescita del sistema produttivo e dell’economia del nostro Paese.  Sono alcuni dati emersi dal report ‘Le imprese estere in Italia e i nuovi paradigmi della competitività’ dell’Osservatorio Imprese Estere, nato per iniziativa dell’Advisory Board Investitori Esteri (Abie) di Confindustria.

In dieci anni +70% di valore aggiunto

Sempre nel periodo 2009-19, le imprese estere hanno registrato un incremento del valore aggiunto di quasi il 70%, passando dai 79 miliardi di euro del 2009 ai 134 miliardi di euro del 2019 (+55 miliardi), con una crescita anche della quota sul totale del Paese, passata dal 12,6% al 16,3%. Significa che le imprese estere hanno contributo quasi al 30% dell’incremento del valore aggiunto nel decennio considerato. Altrettanto rilevante anche l’apporto di queste imprese agli scambi commerciali con l’estero, toccando quasi un terzo (32%) delle esportazioni, e oltre il 46% delle importazioni realizzate dal complesso delle imprese residenti in Italia.

Un investimento pari al 26% della spesa per la ricerca privata

Le multinazionali a capitale estero si distinguono poi per una significativa propensione a investire nel Paese e a innovare, fornendo un importante impulso al settore Ricerca & Sviluppo, grazie all’investimento complessivo di 4,3 miliardi di euro nel 2019, pari al 26% del totale della spesa per la ricerca privata realizzata in Italia. Le imprese estere operano prevalentemente in settori con tecnologia più elevata e partecipano al trasferimento tecnologico da e verso le imprese domestiche, che sono incentivate all’introduzione di nuovi processi produttivi e al miglioramento delle competenze.
Inoltre, spesso assumono il ruolo di lead firm anche sui segmenti della filiera produttiva non direttamente integrati all’interno del perimetro societario. Le maggiori dimensioni e l’appartenenza a Gruppi con sedi in diversi Paesi non solo rendono le multinazionali complementari rispetto al tessuto industriale italiano, ma favoriscono l’internazionalizzazione del sistema produttivo del Paese.

Più resilienti di fronte alle sfide di oggi e del futuro

L’organizzazione manageriale tipica delle multinazionali, riporta Adnkronos, è un fattore particolarmente rilevante ai fini di una migliore capacità di gestione di investimenti complessi. Non sorprende pertanto se grazie al loro assetto organizzativo e alla loro presenza internazionale, le multinazionali si contraddistinguano anche per una forte sensibilità ai temi della sostenibilità ambientale. Questi elementi, uniti a una naturale disposizione a flessibilità e innovazione, rendono le imprese a controllo estero resilienti di fronte alle sfide di oggi e del futuro: dalla riorganizzazione delle modalità lavorative fino alla transizione ecologica e digitale.