Contraffazione, alle aziende italiane costa 30 miliardi

La contraffazione sembra essere un fenomeno inarrestabile nel nostro Paese. Non solo: è in continua crescita, tanto che nel 2019 il 30,5% dei consumatori ha acquistato un prodotto contraffatto o ha usufruito di un servizio illegale (+3,7% rispetto al 2016 e +4,9% in confronto al 2013). Sul fronte delle imprese del commercio e dei servizi, il 66,7% si ritiene danneggiato (era il 65,1% nel 2016), ma soprattutto il costo dell’illegalità si eleva a oltre 30 miliardi, mettendo peraltro a rischio circa 200 mila posti di lavoro. Sono alcuni dei dati più significativi che emergono dall’indagine Confcommercio su illegalità, contraffazione e abusivismo, presentati nell’ambito della Giornata “Legalità ci piace”.

Abbigliamento e prodotti farmaceutici “tarocchi” in aumento

Ma quali sono gli articoli più contraffatti e più acquistati? La ricerca rivela che è in aumento rispetto al passato l’acquisto illegale di abbigliamento (+9,4% sul 2016), prodotti farmaceutici (+2,8), prodotti di intrattenimento (+1,5), pelletteria (+0,4) e giocattoli (+0,3). In crescita l’utilizzo del web, in prevalenza per  giocattoli (+12,1%), prodotti di pelletteria (+10,5) e capi di abbigliamento (+9). E’ per lo stesso web, d’altronde, che passa gran parte dell’intrattenimento (89% della musica, film, abbonamenti tv, eccetera) e quasi la metà (47,9%) dei servizi turistici (alloggio, ristorazione, trasporti) illegali. Per la maggior parte dei consumatori l’acquisto di prodotti o servizi illegali è sostanzialmente legato a motivi di natura economica (82%) ed è ritenuto “normale” (73%), una tendenza diffusa in prevalenza tra i giovani tra i 18 e i 24 anni. Oltre il 90% dei consumatori, comunque, è consapevole dei rischi dell’acquisto illegale e degli effetti negativi di questo fenomeno.  Il  66,8%, in particolare, è informato sul rischio di incorrere in sanzioni amministrative in caso di acquisto di prodotti contraffatti. Il consumatore “illegale” ha più di 25 anni, risiede principalmente al Sud (per il 43,7%), ha un livello d’istruzione medio-basso (per il  77,2%), ed è soprattutto impiegato, pensionato o operaio (per il 69,7%).

Un danno enorme per le imprese

“Contraffazione e abusivismo sono due piaghe che certo penalizzano in particolare i nostri settori, ma che indeboliscono tutta la filiera del made in Italy e la salute del sistema paese sovvenzionando le catene della criminalità organizzata”, ha detto il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. Piaghe che si riflettono pesantemente sui conti delle imprese del terziario di mercato. Il report, infatti, sottolinea che i fenomeni criminali percepiti più in aumento sono contraffazione (34,8%), abusivismo (34%), furti (29%) e rapine (25%). La concorrenza sleale (60,8%) e la riduzione del fatturato (37,8%) sono invece gli effetti ritenuti più dannosi. Per quanto riguarda infine la piaga del  taccheggio, il 69,3% delle imprese del commercio al dettaglio ne è stato vittima almeno una volta, un dato più forte nel Nord Ovest (75,5%) e nel Centro (73,6%).

Meglio lo smart working che rinunciare alle ferie

Sì allo smart working per due italiani su tre, anche e soprattutto in vacanza. Perché è meglio portarsi il lavoro al mare o in montagna piuttosto che rinunciare alle ferie o doverle ridurre notevolmente. È quanto emerge da una recente indagine svolta su un campione di 500 connazionali da Axess Public Relations, agenzia di pubbliche relazioni italiana specializzata nell’healthcare, assicurazioni e no profit.

“La cultura del lavoro – dichiara ad askanews Dario Francolino, presidente di Axess Public Relations -, per alcune professioni si è completamente trasformata, come osserviamo ormai quotidianamente grazie o per colpa dello Smart Working. Guardiamo il lato positivo, così si evitano anche stress e traumi da rientro”. Insomma, senza aver mai completamente “abbandonato” il Pc (e avendo fatto vacanze più lunghe di quelle che sarebbe stato possibile fare) il ritorno alla solita vita è più soft e meno traumatico.

Smart working, per chi è ideale e perché

Lo smart working è il sogno di molti, ma è particolarmente efficace per alcune figure professionali in particolare.

“Lo smartworking è un vero toccasana per alcune professioni più creative, che non necessitano di lavorare per forza dall’ufficio – dice ancora Francolino -. È così che si riescono a conciliare le diverse esigenze dei dipendenti tra cui per esempio la possibilità di avere più supporto nella cura dei figli o dei genitori”. Insomma, così si riesce a conciliare famiglia e lavoro, senza spostamenti e soprattutto senza sacrifici.

L’importanza di responsabilità e rispetto reciproco

Ovviamente, la possibilità di lavorare lontano dall’ufficio presuppone un consolidato rapporto di fiducia, senso di responsabilità e condivisione di regole generali con l’azienda. Un esempio? Per il lavoratore tener conto delle dead line; per l’azienda rispettare il tempo libero dei dipendenti, che non devono lavorare o essere raggiungibili per 24 ore su 24. Solo così le nuove condizioni di lavoro possono essere veramente soddisfacenti per tutte le parti in causa.

Cellulare, non è vero che fa male

Buone notizie anche per quanto riguarda i cellulari, strumenti più che necessari nello smart working. Sulla base del Rapporto Istisan “Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche” l’Istituto Superiore di Sanità diffonde notizie confortanti circa l’utilizzo prolungato del cellulare, che se usato per oltre dieci anni, non farebbe incrementare il rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari). Insomma, via libera al cellulare, soprattutto se significa poter lavorare senza rinunciare alle meritate vacanza.

 

Smart home, un mercato da 380 milioni di euro nel 2018

La crescita del mercato italiano degli smart home è in linea con quello dei principali paesi europei, e nel 2018 ha raggiunto un valore di 380 milioni di euro, in crescita del 52% rispetto al 2017. L’arrivo degli smart home speaker Google Home e Amazon Echo in Italia ha rivoluzionato il mercato della casa connessa: un boom che ha portato investimenti in termini di comunicazione e marketing spingendo le vendite anche di altri oggetti connessi, soprattutto legati al riscaldamento e all’illuminazione. Si tratta di alcuni risultati della ricerca sulla Smart Home dell’Osservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano, presentata al convegno Smart Home: senti chi parla!.

Il 41% degli italiani possiede almeno un oggetto smart

Il boom degli assistenti vocali, riporta Askanews, ha favorito soprattutto i retailer online e offline, che insieme incidono per il 40% del mercato (in crescita del 160% rispetto al 2017), a scapito della filiera tradizionale (produttori, architetti, costruttori edili, distributori di materiale elettrico e installatori) che mantiene un ruolo di primo piano, ma perde terreno in termini di quote di mercato, passate dal 70% del 2017 al 50% di quest’anno. Insieme al mercato crescono anche il livello di conoscenza e la diffusione degli oggetti connessi nelle case degli italiani. Il 59% di loro ha sentito parlare almeno una volta di casa intelligente e il 41% possiede almeno un oggetto smart, con le soluzioni per sicurezza (come sensori per porte e finestre) in prima posizione

Crescono i finanziamenti degli investitori istituzionali

Un ruolo importante continua a essere giocato dalle startup che sviluppano soluzioni di “casa connessa”. Si moltiplicano poi le collaborazioni con i grandi player e continuano a crescere i finanziamenti erogati dagli investitori istituzionali.

“La filiera tradizionale dei produttori e installatori non è stata per il momento in grado di sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove soluzioni IoT per la casa, perdendo terreno nei confronti di retailer tradizionali e online, produttori, assicurazioni, utility e telco, che insieme valgono ormai il 50% del mercato”, spiega Angela Tumino, Direttore dell’Osservatorio Internet of Things -. Si intravedono tuttavia alcuni segnali di maggiore integrazione per il futuro”.

Grandi passi avanti, ma ancora molte barriere da superare

“Nonostante i grandi passi in avanti, rimangono ancora numerose barriere da superare – commenta Giulio Salvadori, Direttore dell’Osservatorio Internet of Things -. In primo luogo la comunicazione ai consumatori delle reali potenzialità di utilizzo degli oggetti smart, cresciuta molto con l’ingresso nel mercato degli Ott, ma ancora non adeguata se guardiamo agli altri produttori e ai i piccoli brand. Bisogna poi lavorare sulla formazione degli addetti all’installazione e alla vendita, spesso non in grado di fornire un adeguato supporto all’utente, e sull’offerta di servizi di valore abilitati dagli oggetti connessi. Un’ulteriore sfida per le aziende nel 2019 sarà valorizzare l’enorme mole di dati”, E al tempo stesso, gestire temi fondamentali come privacy e cyber security.

Il cybercrimine costa alle aziende 5.200 miliardi di dollari

Nei prossimi 5 anni potrebbero essere 5.200 miliardi di dollari i costi addizionali e i mancati ricavi delle aziende dovuti ai cyber-attacchi. Almeno, questa è la cifra stimata a livello mondiale dal report di Accenture, la società globale di consulenza aziendale, dal titolo Securing the Digital Economy: Reinventing the Internet for Trust. La dipendenza da modelli di business abilitati da Internet infatti è attualmente di gran lunga superiore all’abilità di introdurre misure di sicurezza adeguate, in grado cioè di proteggere gli asset strategici.

Il settore high-tech corre i rischi maggiori

“Il livello di sicurezza di Internet è inferiore rispetto al livello di sofisticazione raggiunto dalla criminalità informatica e questo sta portando a un’erosione della fiducia nell’economia digitale”, dichiara Paolo Dal Cin, Security Lead di Accenture Italia. Secondo lo studio il cybercrime, con un’ampia gamma di attività fraudolente e dannose, pone alle aziende sfide significative, in quanto può compromettere le attività aziendali, la crescita e l’innovazione del business, nonché l’introduzione di nuovi prodotti e servizi. Ed è il settore high-tech, con oltre 753 miliardi di dollari di costi emergenti, quello che corre i rischi maggiori, seguito da life science e automotive, la cui esposizione ammonta rispettivamente a 642 e 505 miliardi di dollari, riporta Askanews.

Come diventare cyber-resilienti?

“Un primo passo da compiere per le aziende che vogliono diventare cyber-resilienti è quello di portare le competenze dei CISO nel consiglio di amministrazione”, spiega il Report. Inoltre, quattro intervistati su cinque (79%) ritengono che il progresso dell’economia digitale sarà seriamente compromesso se non ci sarà un sostanziale miglioramento della sicurezza su Internet, mentre oltre la metà (59%) ritiene che Internet sia sempre più instabile sotto il profilo della cyber-sicurezza e non sa come reagire.

E più della metà dei dirigenti (56%) vedrebbe con favore l’entrata in vigore di norme di business più rigorose introdotte da istituzioni o autorità governative.

Collaborare con un ecosistema di partner e proteggere la catena del valore

“La rete Internet non è stata pensata e costruita considerando il livello di complessità e di connettività attuali”, aggiunge Dal Cin. Tre quarti dei dirigenti (76%) evidenzia quanto gli aspetti di sicurezza informatica siano sfuggiti al controllo a causa di nuove tecnologie (IoT, e IIoT, Industrial Internet of Things). E la maggioranza (80%) dichiara che è sempre più difficile proteggere la propria organizzazione dalle vulnerabilità delle parti terze, a causa della complessità e la vastità degli ecosistemi su Internet.

Per dare forma a un futuro che cresca su un’economia digitale forte il top management deve perciò guardare oltre i confini della propria organizzazione, e collaborare con un ecosistema di partner proteggendo la catena del valore nella sua interezza.

Aziende socialmente responsabili, le più richieste dai lavoratori italiani

La maggior parte dei lavoratori italiani vorrebbe lavorare in un’impresa socialmente responsabile. L’ultima edizione del Randstad Workmonitor, un’indagine trimestrale sul mondo del lavoro condotta in 34 Paesi del mondo, rivela una diffusa attenzione degli italiani all’inclusione e al volontariato, oltre che alle politiche sociali delle imprese in cui lavorano o vorrebbero lavorare.

Secondo Randstad, l’operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, l’87% dei lavoratori italiani dichiara che vorrebbe lavorare soltanto in un’azienda con un solido programma di responsabilità sociale. E in questo siamo primi in Europa e diversi punti sopra ai principali paesi del continente, come Germania (75%), Francia (78%), Regno Unito (79%) e Spagna (77%).

Solo un’impresa su due valorizza l’inclusione e la diversity

Quasi sei intervistati su dieci (57%) ritengono importante che l’impresa per la quale si stanno candidando partecipi a iniziative filantropiche. Lo stesso interesse, riporta Adnkronos, non è però altrettanto diffuso fra i datori di lavoro. Soltanto un’impresa su due, infatti, valorizza l’inclusione e la diversity. “Dalla ricerca emerge un forte divario di attenzione e sensibilità all’inclusione fra i lavoratori, che addirittura la pongono come prerequisito per la scelta di un datore di lavoro, e le imprese, che soltanto nel 50% dei casi hanno una politica che valorizza diversity e inclusione”, commenta Marco Ceresa, amministratore delegato Randstad Italia.

Il 29% delle imprese sostiene i dipendenti nell’attività di volontariato

Se per quanto riguarda le imprese oltre metà sostiene attivamente almeno una buona causa (56%, in linea con la media globale, e +4% rispetto alla media europea), il 75% dei dipendenti dichiara che si dedicherebbe al volontariato se il proprio datore di lavoro concedesse permessi retribuiti (+2% rispetto alla media globale e +5% sulla media del continente). Ma l’imprenditoria non sembra ancora pronta a rispondere efficacemente a questa spinta da parte della forza lavoro. Soltanto il 29% delle imprese italiane incoraggia i propri dipendenti a dedicarsi al lavoro sociale non retribuito al di fuori dell’orario d’ufficio.

Numeri ancora distanti dal modello di riferimento: la Danimarca

A sorpresa, sono i lavoratori più anziani il segmento che si sente più stimolato in questa direzione (38%), mentre la percentuale scende vistosamente fra i giovani (24%). Numeri non del tutto disprezzabili, ma ancora distanti dal modello di riferimento più positivo, rappresentato dalla Danimarca. Nel paese scandinavo il 43% degli intervistati svolge attività di volontariato al di fuori dell’orario lavorativo, il 70% delle aziende sostiene una buona causa, il 48% offre permessi retribuiti ai lavoratori per attività di volontariato scelte dai dipendenti, e il 43% li offre per attività scelte dall’azienda stessa.

Tessile: nel 2018 cresce il saldo commerciale, ma diminuisce l’export

 

Nel primo trimestre dell’anno il settore italiano del tessile ha incrementato la sua produzione del 3,2%, che per la tessitura a maglia sale al 5%. Nello stesso periodo il saldo commerciale della tessitura italiana, nel suo complesso, ha superato i 433,4 milioni di euro, per un aumento di oltre 34,5 milioni di euro rispetto ai numeri registrati nello stesso periodo del 2017. Sul fonte export però il 2018 è iniziato con uno scarso dinamismo: le vendite di tessuti oltreconfine hanno segnato una lieve flessione (-0,4%) rispetto all’anno passato. E per l’import va decisamente peggio: -8,9%.

Un settore dalle performance diversificate: bene la lana meno il cotone

Si tratta dei dati sul tessile (tessitura laniera, cotoniera, liniera e serica) diffusi da Istat, ed elaborati dal Centro Studi di Confindustria Moda. Dati che mostrano un andamento diversificato per i vari comparti. Dentro il dato medio della tessitura, infatti, si registrano performance molto differenti. Il comparto laniero, ad esempio, rivela un trend in controtendenza per l’export: le vendite all’estero restano positive anche nel periodo considerato con un aumento del 2,8%, i tessuti pettinati registrano una crescita del 3,3%, e quelli cardati del +1,2%.

Il tessuto cotoniero mostra, invece, una contrazione, sia nelle esportazioni, che scendono del -6,5%, e in misura maggiore delle importazioni, che cedono addirittura il 15,2%.

Boom del lino italiano all’estero, aumenta l’import della seta

Il tessuto liniero assiste poi a un aumento dell’export dell’11,1%, e a un balzo dell’import del 34,6%. Da gennaio a marzo 2018 il fatturato estero del tessuto a maglia cresce invece del +1,3%, mentre l’import accusa una flessione pari al -12,8%. Infine, il tessuto in pura seta mostra una timida crescita dell’export (+0,9%) e una più vivace dinamica nel caso delle importazioni, pari al +3,9%.

I dati Istat segnalano anche il calo complessivo nel trimestre dell’8,9% delle importazioni di tessuti. Un calo che colpisce in particolare Cina, Turchia e Pakistan., riferisce Askanews.

Cresce il commercio Ue, calano le vendite in Usa, Cina, Hong Kong

Dal punto di vista geografico, nei primi tre mesi del 2018 le vendite di tessuti mostrano un trend divergente fra Ue ed extra-Ue. Il commercio comunitario segna un lieve aumento (+0,4%), mentre quello non comunitario presenta un decremento dell’1,3%.

Con riferimento ai principali mercati, Germania e Francia continuano a mantenere la posizione di primi due mercati per le importazioni di tessuti italiani, crescendo rispettivamente del 9,2% e del 6,1%. Una flessione del 6,8% colpisce, invece, il terzo mercato, ovvero la Romania, mentre la Tunisia, al quarto posto, mostra un incremento dell’8,8%.

Oltre agli USA, in calo dell’11,1%, calano anche Cina e Hong Kong, rispettivamente del 4,8% e del 5,5%. Nonostante i dati negativi, però, sommati insieme Cina e Hong Kong arriverebbero a 74 milioni di euro. Risultando secondi quindi solo alla Germania.

Come le aziende b2b si muovono sul web

L’autorevole istituto di ricerca Benchmarks, Budget and Trends ha compiuto nel 2015 una ricerca su come le aziende attive nel business to business utilizzano la comunicazione sul web, e su quali aspetti di essa si focalizzano maggiormente. Uno studio interessante perché compiuto anche su aziende che fanno business to consumer: una ricerca che porge qualche risultato utile sia nell’evidenziare i punti di contatto, sia le differenze più marcate tra la comunicazione b2b e b2c.

La domanda dalla quale si è partiti è la seguente: “Quali obiettivi mirano a raggiungere le aziende attraverso la comunicazione digitale nel business to business?”. Le risposte hanno evidenziato il ruolo primario della brand awareness, ovvero la conoscenza di marca sia nel suo aspetto qualitativo, legato alla notorietà, sia in quello quantitativo, legato al riconoscimento del brand. Le aziende, attraverso la comunicazione via web, vogliono farsi riconoscere da altre aziende, far ricordare loro i prodotti e le offerte e distinguersi dai concorrenti. Dalla ricerca emerge come il secondo obiettivo sia la lead generation, il creare cioè liste di utenti/clienti/aziende particolarmente interessate ad acquistare un prodotto o servizio: attraverso motori di ricerca, social network, landing page e blog si possono ottenere i contatti delle aziende che più interessano.

Benchmarks, Budget and Trends inserisce come terzo obiettivo della comunicazione digitale nel B2B l’engagement, ovvero il saper veicolare messaggi coinvolgenti che portino le aziende a diventare clienti (nel caso migliore), o contribuiscano a costruire un livello di fiducia tale da invogliare i potenziali clienti a informarsi costantemente, per diventare clienti o “consiglieri” di altri clienti. In una parola, l’engagement crea legami solidi e passaparola. Naturalmente, con i social network è possibile avere misure analitiche o engagement rates di questo obiettivo.

Sorprendentemente, le voci sales e up sell (riuscire a compiere una vendita che sia maggiore, in valore, a quella che il cliente aveva intenzione di realizzare) figurano nella coda della classifica, forse perché nel business to business strappare il singolo ordine senza una reale comprensione della brand awareness non interessa. Penultimo obiettivo perseguito attraverso la comunicazione digitale nel b2b è la customer loyalty: evidentemente le aziende cercano di costruire un rapporto privilegiato e di fiducia con altre aziende – che rimanga inalterato – nel medio e lungo periodo, attraverso strumenti diversi rispetto al web. Questa gerarchia di obiettivi, sempre secondo lo studio sopracitato, cambia considerando le aziende che fanno business to consumer: attraverso la comunicazione digitale, esse ricercano in primis gli obiettivi della customer loyalty e dell’engagement.

Serramenti blindati in alluminio e acciaio | R&T

Ad oggi, i serramenti blindati rappresentano uno dei più efficaci sistemi antieffrazione presenti in commercio. Se da un lato i moderni impianti d’allarme sembrano garantire sicurezza ed invulnerabilità, dall’altro bisogna ricordare che un sistema elettronico infallibile non esiste e che non è poi così difficile per i malintenzionati riuscire a metterli fuori uso. I serramenti blindati invece, rappresentano una solida barriera fisica difficilmente superabile e che funge anche da deterrente, in virtù del fatto che anche semplicemente per provare a scalfirli serve del tempo di cui ovviamente i malintenzionati non dispongono.

R&T è una azienda di Cambiago (Mi) che da anni collabora con i più importanti istituti di credito italiani, e produce serramenti blindati di assoluta qualità in grado di garantire sicurezza ed un impatto estetico decisamente piacevole. Ciò pone R&T tra le aziende di riferimento per il settore nell’intero panorama nazionale, e la qualità del prodotto finale è chiaramente tangibile anche agli occhi di chi non è del settore. I serramenti R&T sono assolutamente personalizzabili in base alle specifiche esigenze di ogni cliente, e la scelta di colori, materiali e lavorazioni è talmente ampia da permettere a ciascuno di individuare esattamente il prodotto più adatto alle proprie esigenze.

Per garantire un ulteriore livello di sicurezza, il cliente potrà decidere di optare per serramenti in alluminio combinato con acciaio al posto dei normali serramenti in alluminio. L’acciaio sarà posizionato all’interno dei profili in alluminio così da garantire un livello di robustezza ancora maggiore, il che è di grande importanza non solo per gli istituti di credito ma anche per privati, realtà commerciali e tutti coloro che desiderano una soluzione in grado di coniugare solidità ed eleganza a protezione del proprio esercizio commerciale o abitazione, per proteggere la propria merce o i propri cari dalle intrusioni di eventuali malintenzionati.